Fonte: Global Research
http://www.globalresearch.ca/index.php?context=viewArticle&code=BAR20110624&articleId=25382
Molti commentatori stanno basando il successo del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo della Turchia (AKP) nelle scorse elezioni del 12 giugno in gran parte sulla sua capacità di guidare il Paese attraverso un decennio di notevole crescita.
Gli indicatori economici sono spesso visti come fattori necessari dietro la stabilità economica – la cui assenza, invece, incide in maniera inversa. Tuttavia, solo questi non sono sufficienti per dare giudizi così definitivi.
In un articolo intitolato: “Guardare oltre l’economia della Turchia per comprendere la rielezione di Erdogan”, Ibrahim Ozturk afferma: “Dal 2002 al 2007, la Turchia ha conosciuto il più lungo periodo di ininterrotta crescita economica, in media il 6-7% l’anno, mentre l’inflazione annua è scesa in maniera considerevole. Inoltre, l’economia ha resistito alla prova della crisi finanziaria globale, recuperando attraverso una crescita rapida” (commento apparso sul libanese ”The Daily Star”, del 18 giugno).
Secondo la puntuale analisi di Ozturk, il successo del Partito AKP nel recuperare i pezzi di un’economia in frantumi (come conseguenza della grave crisi economica del 2001), e la grande popolarità del Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan “sembrano aver assicurato il controllo politico e democratico della burocrazia e dei militari in Turchia. Il potente esercito turco aveva ripetutamente interferito, in passato, nella politica del Paese, guidando tre colpi di stato militari che d’altronde non sono riusciti a minare seriamente la democrazia turca”.
La molto promettente esperienza politica turca, ormai bollata come il “Modello Turco”, ha dovuto affrontare numerose sfide. E’ stato necessario che si formasse una nuova generazione di leader turchi per garantire al Paese un ruolo di potenza regionale politicamente stabile e con una economia in crescita (il PIL ha registrato un incremento del 9% nel 2010).
Pertanto, sono state delle politiche disinvolte a generare un’economia forte, o è stata una crescita economica responsabile a favorire una stabilità politica (tanto da placare l’attivismo dei militari e consolidando così ulteriormente l’esperienza democratica della Turchia)?
La Libia è un interessante esempio da prendere in considerazione per riflettere sulla questione. Il Paese nordafricano, che è attualmente coinvolto in una rivolta armata, subendo le conseguenze di una guerra guidata dall’Occidente, ha potuto beneficiare di indicatori numerici molto elevati. Grazie alle rendite del petrolio e ad una popolazione ridotta, la Libia ha il più alto PIL pro capite dell’Africa. La sua crescita economica è stata relativamente stupefacente a partire dal 2000. Nel 2010, il PIL è cresciuto di oltre il 10%.
Per molti libici però, la giustizia sociale, la redistribuzione della ricchezza, la libertà politica e altre questioni rappresentano temi di maggiore rilevanza rispetto a qualsiasi gratificante dato del PIL.
Anche in Egitto, nonostante la consistente povertà che tocca gran parte della popolazione (diversamente dalla Libia), i giovani della rivoluzione del 25 gennaio provenivano da vari ambienti economici. Per molti di loro, la libertà pareva essere prioritaria rispetto alla mera sussistenza economica.
Il caso della Turchia non è dissimile da questi. Infatti, una riflessione sul successo della Turchia non può essere ridotta ad un decennio di crescita economica e stabilità politica. Inoltre, la “moderna Turchia” non può essere considerata solo in merito ai successi palpabili conseguiti dall’AKP. È dunque necessario risalire alle precedenti generazioni, a cominciare da Mustafa Kemal Ataturk, il fondatore della Repubblica di Turchia. La più importante figura pubblica agli occhi di diverse generazioni di turchi, Ataturk è riuscito ad ottenere l’indipendenza della Turchia – risultato, questo, non facile, considerando le sfide del tempo. Tuttavia, né lui, né il suo stile politico hanno risolto la questione dell’identità culturale e politica della Turchia intesa come un Paese a maggioranza musulmana che definiva la “modernità” basata quasi esclusivamente su valori occidentali. Questa considerazione, in realtà, è stata dibattuta nel Paese per decenni.
Si potrebbe sostenere che collocare la Turchia in un adeguato contesto socio-economico, culturale e politico sia stata una delle maggiori sfide contemporanee per la politica turca.
Per decenni, la Turchia è stata divisa tra i suoi legami storici con Paesi musulmani e arabi, da un lato, e la spinta verso un’impulsiva occidentalizzazione, dall’altro. Quest’ultimo fattore è sembrato molto più influente nel formare la nuova identità turca nelle sue manifestazioni individuali, collettive, e quindi anche nelle sue prospettive di politica estera.
Anche durante questo “tira e molla” tra diverse tendenze, la Turchia è cresciuta di importanza come attore politico ed economico. Si è dunque trasformata in una nazione ricca di senso di sovranità, di orgoglio e di audacia per affermarsi quale potenza regionale.
Durante gli anni ’70, quando l’Islam politico era in ascesa in tutta la regione, la Turchia stava ripensando il proprio ruolo. Vari gruppi politici hanno iniziato ad affrontare l’idea di ridefinire l’Islam politico ad un livello completamente nuovo.
In effetti, fu il compianto dott. Necmettin Erbakan, Primo Ministro della Turchia tra il 1996 e il 1997, ad iniziare la sfida nei riguardi del concetto convenzionale di Turchia quale membro di seconda classe della NATO profondamente impegnato a favorire un’idea tutta occidentale del Paese.
Alla fine degli anni ’80 il Rafah Party (Partito del Benessere) di Erbakan ottenne il successo in Turchia. Il partito diede limitate spiegazioni circa le sue radici islamiche e il suo atteggiamento politico. La sua ascesa al potere a seguito delle elezioni generali del 1995 aveva sollevato alcune preoccupazioni, come l’idea che la solida Turchia “filo-occidentale” stesse deviando dal suo rigido copione originario che l’aveva disegnata quale potenza regionale “lacchè della NATO”, (una frase usata lo scorso anno da Salama as-Salama in un articolo apparso su Al-Ahram Weekly).
I giorni di Erbakan potrebbero essere del tutto andati, ma la sua eredità non si è mai estinta nella coscienza nazionale turca. Egli iniziò un processo di riposizionamento della Turchia – politico, oltre che economico – con la creazione del Developing Eight (D-8), che raggruppava al suo interno i Paesi arabi e musulmani più rilevanti. Quando Erbakan fu costretto a dimettersi in seguito ad un colpo di stato militare “postmodernista”, ciò fu inteso come la fine del breve esperimento politico.
Ma la vittoria elettorale dell’AKP, nel 2002, ha ridato vita alle idee di Erbakan attraverso gli sforzi di una giovane e sapiente nuova leadership politica. Questo progetto è stato, da poco, premiato con un terzo mandato per proseguire il programma di crescita economica e di riforme politiche e costituzionali.
Oggi la Turchia sembra poter offrire molto più che la sola stabilità interna. Essa si sta dimostrando un interessante modello regionale da emulare per i suoi vicini, fornendo un contributo importante in un’epoca delle rivolte arabe e di potenziali trasformazioni politiche.
E’ essenziale che l’esperienza turca non venga ridotta ad una semplice sfilata di numeri e grafici che delineano una crescita economica. Si pensi al fatto che alcuni Paesi molto ricchi siano tuttavia politicamente inquieti. Il successo del “modello turco” sostituisce la stessa economia a favore di una equilibrata governance politica, a vantaggio della democrazia e della rivitalizzazione della società civile e delle sue numerose istituzioni.
Indicatori economici positivi possono essere promettenti, ma senza una leadership responsabile che riesca a guidare la crescita e a distribuire ricchezza, la stabilità politica del Paese non può essere garantita.
(Traduzione di Giuseppe Dentice)
* Ramzy Baroud (www.ramzybaroud.net) è un giornalista internazionale di varie agenzie di stampa e direttore di “PalestineChronicle.com”. È inoltre un consueto collaboratore di Global Research.