Come è noto, la controversia internazionale legata al programma nucleare iraniano è salita agli onori della cronaca fin dal 2003 e da allora gli organi di informazione occidentali hanno rigorosamente funto da cassa di risonanza ai malumori statunitensi ed israeliani relativi alla sua messa a punto.
Meno noto è indubbiamente il fatto che furono gli stessi Stati Uniti a fornire all’Iran i primi cinque reattori nucleari.
Correva l’anno 1967 e sul trono di Teheran era saldamente assiso lo Shah Reza Pahlavi che l’anno seguente scelse di aderire al Trattato di Non Proliferazione nucleare contando sul pieno appoggio del governo di Washington.
Lo stesso Henry Kissinger si fece promotore di un partenariato nucleare con Teheran i cui termini vennero fissati con la ratifica di un accordo sottoscritto da entrambe le parti nel 1975.
All’epoca Iran e Israele erano gli unici paesi stanziati nel Vicino e Medio Oriente a sposare la causa statunitense ed ottennero sostanziosi aiuti economici e forte sostegno politico affinché assurgessero – la Persia in particolare, in virtù della sua posizione geografica strategicamente fondamentale – a bastioni dell’atlantismo contro le mire egemoniche sovietiche sul Golfo Persico e sull’Asia meridionale.
Tuttavia la fuga dello Shah e la prorompente ascesa dell’Ayatollah Ruollah Khomeini, protagonista assoluto della Rivoluzione Islamica, scompaginarono tutti i rapporti diplomatici tessuti negli anni precedenti alla luce della marcata ostilità nei confronti degli Stati Uniti mostrata fin dagli inizi dal leader spirituale iraniano.
Di conseguenza, i vincoli dell’accordo con gli Stati Uniti decaddero e il programma nucleare iraniano subì una brusca battuta d’arresto che perdurò proprio fino al 2003, anno in cui si ravvivò l’interesse del governo di Teheran per l’energia atomica che attirò le ben note attenzioni internazionali.
Malgrado il Presidente Mohammed Khatami avesse chiarito che “Gli sforzi dell’Iran nel campo della tecnologia nucleare sono focalizzati sull’applicazione civile e su nient’altro che questo, come è suo legittimo diritto”, il Ministro degli Esteri israeliano Sylvain Shalom rivolse ugualmente nei confronti dell’Iran l’accusa di “Voler sviluppare un’arma nucleare”, ponendo l’accento sul fatto che “Ciò costituisce una minaccia non solo per Israele ma per il mondo intero”.
Apparve immediatamente paradossale ed indifendibile la posizione su cui stava arroccandosi il governo di Tel Aviv, che si arrogava il diritto di lanciare accuse e non troppo velate minacce verso un paese firmatario del Trattato di Non Proliferazione Nucleare come l’Iran pur essendo l’unica nazione dell’area del Vicino Oriente a disporre di un arsenale nucleare e, a differenza dell’Iran, a non accettare le ispezioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.
Al di là delle strumentali accuse mosse da Israele, occorre sottolineare il fatto che l’interesse dall’Iran nei confronti dell’energia nucleare fu manifestato in corrispondenza di una congiuntura storica resa particolarmente incandescente dall’aggressione statunitense all’Afghanistan del 2001 e all’Iraq del 2003, oltre all’ acuirsi della tensione tra Israele e Palestina maturata in seguito alle posizioni oltranziste assunte dal Primo Ministro Ariel Sharon.
In questo particolare contesto reso estremamente caotico dalle molte frizioni internazionali di intensità variabile è andato dunque ad inserirsi il programma nucleare iraniano, finito immediatamente nell’occhio del ciclone in seguito alle accuse mosse contro il governo di Tehran, accusato di averlo avviato i lavori per soddisfare l’ambizione di affermare il paese al rango di potenza di pari grado rispetto ai propri concorrenti regionali quali India, Pakistan ed Israele, nazioni che sono state lasciate pressoché indisturbate mentre ultimavano la costruzione degli ingenti arsenali nucleari di cui dispongono attualmente.
Ben altro trattamento è stato riservato invece all’Iran, in specie dall’elezione di Mahomoud Ahmadinejad (2005), personaggio assai meno conciliante rispetto ad alcuni suoi predecessori come Akbar Rafsanjani o lo stesso Mohammed Khatami.
Non a caso, mentre nei confronti di Khatami solo Israele aveva alzato il tiro facendo ricorso ai consueti toni apocalittici per convincere Teheran a desistere dalla prosecuzione del programma nucleare, verso Ahmadinejad si è invece scatenata l’ira congiunta di numerose potenze occidentali che non hanno esitato ad allinearsi alla posizione oltranzista israeliana.
Nel settembre 2007 il Ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner dipinse pubblicamente (in un’intervista rilasciata a un’emittente televisiva) di tinte a dir poco fosche lo scenario iraniano, sottolineando l’imminenza di un attacco contro i suoi impianti nucleari.
L’ex generale statunitense Wesley Clark – uomo assai influente e molto ammanicato con gli ambienti del Dipartimento di Stato – si spinse oltre, non solo ammettendo esplicitamente l’esistenza di piani militari di attacco all’Iran, ma scendendo addirittura nei particolari strategici delle operazioni: “Per evitare che il prezzo del petrolio nel mondo vada alle stelle si dovrà cercare di proteggere ogni stazione di pompaggio del greggio e del gas, nonché i porti e le zone di carico. Anche Israele ha preparato diversi piani: può attaccare obiettivi iraniani sia con le bombe sganciate da aerei sia con missili Cruise a lungo raggio lanciati da sottomarini”.
Nei confronti dell’Iran di Ahmadinejad sono state inoltre adottate ben due risoluzioni ONU:
La 1737 del 27 dicembre 2006 impose al governo di Teheran di bloccare qualsiasi attività di arricchimento dell’uranio e dispose un rigido embargo sulle forniture di qualsiasi materiale legato al settore nucleare.
La 1747 del 24 marzo 2007 inasprì ogni misura prevista nella risoluzione precedentemente approvata allargando il campo dei divieti anche a personalità e rappresentanti istituzionali.
Tuttavia la prospettiva di una guerra contro l’Iran apparve insostenibile anche a influenti membri dell’Unione Europea tradizionalmente restii a mostrarsi in disaccordo con Washington e Tel Aviv.
La stessa Italia (coadiuvata dalla più rigorosa Germania) avanzò critiche aperte alla posizione assunta da Kouchner che spinsero il governo di Parigi ad assestarsi su una linea comune europea ostile all’interventismo e contraria all’apertura di un terzo fronte di guerra che sarebbe andato a sommarsi a quelli afghano e iracheno.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, presero atto della posizione europea e tornarono a caldeggiare l’ipotesi diplomatica, abbandonando la via dell’oltranzismo gradita ad Israele.
Tale marcia indietro fu probabilmente ingranata dalle potenze occidentali non solo in ragione dell’ostinata e sfrontata resistenza di Ahmadinejad, che non aveva ceduto nonostante fortissime pressioni e minacce, ma anche (e soprattutto) in virtù della discesa in campo di Vladimir Putin, che si era recato di persona a Teheran nell’ottobre 2007 in qualità di (massimo) rappresentante della Russia alla conferenza sulla sicurezza per far fronte alla situazione.
Al tavolo delle trattative sedevano, oltre a Putin e ad alti rappresentanti iraniani, esponenti di Kazakistan, Turkmenistan e Azerbaigian, i quali raggiunsero un accordo in base al quale i paesi da essi rappresentati si impegnavano a garantire che dal loro territorio non sarebbe stato sferrato alcun attacco contro uno qualsiasi degli altri paesi sottoscriventi.
Raggiunto l’accordo, Putin dichiarò apertamente che “L’utilizzo della forza nella regione non deve essere neppure contemplato”.
Di fronte al monito lanciato da Putin il Presidente George W. Bush colse immediatamente l’occasione per acuire i toni dello scontro non limitandosi a ribadire la ferma e imprescindibile intenzione di impedire all’Iran di portare avanti il proprio programma nucleare ma, riallacciandosi ad esso, paventando l’ipotesi (alquanto lontana) che un Iran assurto a potenza nucleare non avrebbe trovato ostacoli per minacciare persino Stati Uniti ed Europa.
Tale ipotesi, per quanto fantasiosa e strumentale, funse da sponda a Bush non tanto (ma anche) per enfatizzare la natura del problema quanto (e soprattutto) per fregiare dei dovuti crismi legittimatori e per pubblicizzare ad hoc la propria linea oltranzista riguardante l’ultimazione del programma ABM (Anti Ballistic Missile) fortemente avversato dalla Russia.
Le sinistre deduzioni relative alla questione iraniane snocciolate dal Mossad, da Bush e da alcuni influenti membri del suo nutrito e “autorevole” entourage di analisti ed esperti entrarono però in rotta di collisione con le conclusioni contenute nel National Intelligence Estimate reso pubblico il 3 dicembre 2007, secondo le quali l’Iran non stava affatto portando avanti alcun programma nucleare militare.
I passi salienti del National Intelligence Estimate vennero quindi legittimamente utilizzati da Ahmadinejad per rivendicare la propria correttezza e per sollecitare la comunità internazionale affinché si unisse all’Iran nell’esigere che Stati Uniti ed Israele comparissero sul banco degli imputati dinnanzi alla comunità internazionale per rispondere del loro atteggiamento immotivatamente aggressivo e irrispettoso tenuto nei riguardi dell’Iran.
La tensione subì un relativo abbassamento dovuto alla sostanziale vittoria politica riportata da Ahmadinejad il quale, essendo riuscito nell’impresa di smascherare l’inconsistenza delle accuse israeliane e statunitensi e ottenendo l’appoggio della Russia, pose l’Iran nelle condizioni di mantenere la propria autonomia decisionale nelle questioni fondamentali inerenti la politica interna e quella estera.
Pare assodato il fatto che l’intelligenza politica di Ahmadinejad sia stata effettivamente solleticata dall’idea di affermare il proprio paese al rango di potenza nucleare in specie dopo la sorte toccata all’Iraq, bombardato nel marzo del 2003 e poi invaso dagli Stati Uniti malgrado gli ispettori dell’ONU non avessero reperito alcun ordigno del presunto arsenale attribuito a Saddam Hussein.
Allora gli Stati Uniti di Geroge W. Bush ben emulati dai loro alleati britannici guidati da Tony Blair ripiegarono, di fronte all’evidente assenza di armi di distruzione di massa, sull’esibizione di prove palesemente false fabbricate a tavolino (si ricordi la sceneggiata del Segretario di Stato Colin Powell al Palazzo di Vetro) mediante le quali contavano di convincere la comunità internazionale dell’esistenza di un non meglio specificato arsenale chimico in dotazione all’esercito iracheno.
L’escalation degli eventi ha indotto un paese come la Corea del Nord a trarre un duro insegnamento al riguardo, ovvero che dal momento che una semplice accusa di detenere illegalmente armi di distruzione di massa non suffragata da alcuna prova si era rivelata condizione sufficiente per aggredire violentemente un paese sovrano come l’Iraq, tanto valeva accelerare i tempi per la costruzione di un arsenale nucleare che avrebbe almeno garantito un discreto margine di deterrenza in grado di scoraggiare gli aggressori.
La Corea del Nord si ritirò infatti dal Trattato di Non Proliferazione nucleare nel 2003 e attivò parallelamente la centrale di Yongbyon.
Il 10 febbraio 2005 il governo di Pyongyang annunciò pubblicamente di aver ultimato la costruzione di un numero non specificato di testate nucleari per far fronte all’aggressività mostrata dagli Stati Uniti.
Allora anche la linea oltranzista propugnata da George W. Bush dovette scontrarsi contro la realtà geopolitica della regione, assai favorevole alla Corea del Nord.
Un ipotetico atto di forza contro la Corea del Nord avrebbe infatti spinto Pyongyang a rivolgersi ai vicini alleati cinesi, che sarebbero indubbiamente intervenuti per sventare una pericolosa crisi internazionale dai risvolti potenzialmente catastrofici lungo i propri confini.
L’Iran paga invece il suo sostanziale isolamento regionale, dovuto principalmente alla storica ostilità del paese verso quelli limitrofi e alle differenze di natura etnica (persiana) e religiosa (sciita) che lo contraddistinguono dalle nazioni vicine, arabe e sunnite in larghissima maggioranza.
L’elezione di Barack Obama ha inoppugnabilmente sortito rilevanti ricadute sui rapporti tra Stati Uniti ed Israele, che aveva trovato in Bush un interlocutore di rara disponibilità e assai bendisposto ad accogliere le richieste avanzate da Tel Aviv.
Tra i prestigiosi nominativi scelti per formare lo staff di Obama spiccano elementi noti, ma il più “pesante” sponsor dell’attuale Presidente americano non occupa alcun incarico di governo e risponde al nome di Zbigniew Brzezinski, che in passato non ha mancato di opporsi ad Israele e di esprimersi aspramente sull’operato dei governi di Tel Aviv, sulla potente Israel lobby e sull’atteggiamento – definito “maccartistico” – dell’establishment ebraico – americano nei confronti dei critici di Israele.
Costui non ha esitato a richiamarsi alle gerarchie internazionali e ai rapporti di forza che le regolano per riaffermare il primato indiscusso degli interessi statunitensi su quelli degli alleati nel corso di un’intervista rilasciata al The Daily Beast, nell’ambito della quale ebbe a sostenere che qualora i caccia israeliani si fossero azzardati a sorvolare lo spazio aereo iracheno per attaccare l’Iran, gli Stati Uniti non avrebbero dovuto esitare ad abbatterli, così come l’esercito israeliano non aveva indugiato dinnanzi alla possibilità di affondare la nave USS Liberty nel giugno 1967, in piena Guerra dei Sei Giorni.
Forte dell’appoggio della Russia e potendo contare sul parziale inasprimento dei rapporti tra Stati Uniti ed Israele, Ahmadinejad si è sentito sufficientemente coperto per portare avanti il programma nucleare sfidando l’embargo disposto dalle potenze occidentali.
Di fronte all’audacia mostrata da Ahmadinejad numerosi analisti si sono limitati ad agitare nuovamente il consolidato spauracchio legato alla bomba atomica che avrebbe giustificato l’altrimenti inspiegabile, accanito ricorso al nucleare da parte del governo di un paese come l’Iran che dispone di ingenti risorse petrolifere e gasifere.
Una lettura superficiale e sbrigativa della situazione porterebbe in effetti ad appoggiare una spiegazione simile, ma alla prova dei fatti risulta che le cose stiano in maniera ben diversa da come vengono comunemente narrate.
Da diversi anni l’Iran è soggetto a una prorompente crescita economica accompagnata dal classico aumento dei consumi interni ma non dispone delle tecnologie necessarie per ottimizzare la propria produzione di petrolio e gas.
A ciò vanno sommati i tesissimi rapporti con i paesi occidentali in possesso delle conoscenze richieste e l’embargo disposto mediante l’applicazione delle due risoluzioni ONU.
Queste condizioni critiche obbligano il governo di Teheran ad adottare misure drastiche per venire a capo della situazione.
Mantenendo inalterate le quantità di greggio esportate occorrerebbe razionare i consumi interni, frenando la spontanea crescita del paese.
Qualora si decidesse di aumentare la produzione si renderebbe necessaria la partecipazione delle compagnie occidentali, che non avrebbe in alcun caso luogo in assenza di una drastica revisione preliminare dei rapporti con gli Stati Uniti e con i loro alleati, con le relative ripercussioni sull’autonomia decisionale del governo.
L’altra via percorribile riguarda invece la differenziazione delle fonti energetiche che adeguatamente sostenuta alleggerirebbe la dipendenza diretta del paese da risorse quali petrolio e gas, le quali mantengono un peso assai consistente sulla bilancia commerciale degli stati e costituiscono un fattore suscettibile di sortire forti ripercussioni di carattere geopolitico sugli equilibri mondiali.
L’Iran, puntando forte sul nucleare, ha intrapreso questa ultima strada ed è attualmente oggetto di fortissime pressioni esercitate dalle potenze occidentali interessate a far si che il governo di Teheran desista nel perseguire tale obiettivo.
I soverchianti strumenti coercitivi a cui gli Stati Uniti e i loro alleati hanno fatto ricorso hanno però portato i dirigenti iraniani ad intensificare ulteriormente i rapporti con la Russia, che oltre ad essere un robusto e affidabile alleato militare aveva tutte le carte in regola per fungere da partner in ambito energetico.
Così, dall’intesa militare raggiunta nel 2007 prese vita una sinergia tra i due paesi che si finì per allargarsi, coinvolgendo il colosso energetico Gazprom e conferendo in tal modo credibilità al progetto finalizzato alla creazione di un’OPEC del gas formata dai primi tre produttori a livello mondiale, ovvero Russia, Iran e Qatar.
In passato Putin ha riconosciuto apertamente (si pensi al discorso pronunciato a Monaco nel corso della Conferenza sulla Sicurezza del 10 febbraio 2007) di considerare la prospettiva di integrazione tra Europa e Russia uno dei principali obiettivi da perseguire negli anni, ma le opposizioni delle burocrazie di Bruxelles (Unione Europea) storicamente legate a Washington hanno finora mandato a monte ogni tentativo operato per realizzare tale progetto.
Di conseguenza Putin ha adottato un modus operandi particolare, volto a tenere l’Unione Europea al di fuori delle trattative privilegiando il dialogo con i singoli paesi europei, che nel frattempo hanno fatto massiccio ricorso agli idrocarburi provenienti dall’Iran.
Le trame diplomatiche tessute negli anni dal Cremlino hanno prodotto effetti sorprendenti, culminati con la nomina dell’ex cancelliere tedesco Gerard Schroeder a presidente della società Noth Stream AG, che si occupa della realizzazione del gasdotto concepito per far approdare il gas russo ai terminali tedeschi aggirando l’Ucraina, soggetta alle ben note turbolenze politiche.
Sul versante meridionale, l’interesse della Russia è esaurientemente riassunto nelle linee guida del progetto finalizzato alla realizzazione del gasdotto South Stream che, parallelamente al North Stream, consentirebbe il flusso del gas russo attraverso le acque territoriali turche fino allo snodo centrale situato in Bulgaria, da cui si diramerebbero due corridoi opposti, l’uno diretto verso l’Austria e l’altro verso la Puglia.
Gli Stati Uniti hanno pesantemente avversato la realizzazione ti tale progetto patrocinandone, coadiuvati dall’Unione Europea, uno alternativo comprendente la costruzione del gasdotto Nabucco, concepito per sottrarre i paesi europei alla dipendenza energetica dalla Russia rifornendoli parzialmente di gas iraniano.
La costruzione del progetto in questione è parso utopica fin dai primordi, principalmente in virtù dei cattivi rapporti vigenti tra Iran e Stati Uniti.
E’ logico quindi che Putin preferisca ridurre la concorrenza sul mercato occidentale spingendo l’Iran ad orientare la propria attenzione verso est, ovvero verso quei paesi – come India e Cina – attualmente protagonisti di una esorbitante crescita economica e quindi affamati di energia.
La Russia ha perciò sostenuto attivamente la costruzione del cosiddetto “gasdotto della pace”, un corridoio energetico che dall’Iran, snodandosi lungo il territorio pakistano, approderebbe ai terminali indiani.
Ulteriori diramazioni di tale condotto potrebbero garantire approvvigionamento anche alla Cina, favorendo una distensione dei rapporti all’interno del temibile triangolo nucleare Pakistan – India – Cina potenzialmente dirompente in chiave euroasiatica.
La realizzazione di tali progetti presuppone però che il programma di differenziazione delle fonti energetiche venga portato avanti con successo e che lo sfruttamento di queste ultime riesca a coprire un’ampia fetta del fabbisogno iraniano.
In tal modo il governo di Teheran potrebbe non esser costretto a dover ricorrere forzatamente né al razionamento dei consumi interni né all’abbassamento delle esportazioni.
Tenendo conto che nell’arco di qualche decennio il problema si espanderà a macchia d’olio – soprattutto a fronte del costante aumento della domanda internazionale di idrocarburi della Cina e di altri paesi emergenti – fino a costringere paesi ricchi di idrocarburi come l’Arabia Saudita a battere la via della differenziazione, si evince che non esiste alcuna “minaccia iraniana”, se non per Israele che mira ad imporre la propria egemonia sul Vicino e Medio Oriente e trova effettivamente nell’Iran un pericoloso avversario.
Esiste, di converso, la possibilità che un Iran in piena ascesa economica in grado di ovviare ai propri momentanei deficit tecnologici concernenti l’estrazione degli idrocarburi mediante l’energia nucleare utilizzi le proprie materie prime per rompere, supportato da una potenza come la Russia, l’accerchiamento di cui è vittima e stringere alleanze o intensificare rapporti diplomatici in grado di innescare un processo di distensione panasiatica in grado di compattare l’intero continente e che, sempre mediante intervento decisivo della Russia, integrerebbe gradualmente anche l’Europa.
Alla luce di tutto ciò, non dovrebbe risultare un compito particolarmente arduo quello di soppesare le ragioni che spingono i ben noti centri di potere ad impegnare enormi sforzi nella lotta contro il nucleare iraniano.