Quantcast
Channel: golfo di Aden – Pagina 169 – eurasia-rivista.org
Viewing all articles
Browse latest Browse all 140

Il mondo arabo e le rivolte: eterogeneità e complessità

$
0
0

La sera di venerdì 8 luglio si è tenuta presso il Centro Culturale Italo-Arabo “Dar Al Hikma” la conferenza “Capire le rivolte arabe”, organizzata dall’IsAG nell’ambito del Ciclo 2010-2011 dei Seminari di Eurasia. Sono intervenuti come relatori Daniele Scalea (segretario scientifico IsAG e co-autore del libro Capire le rivolte arabe), Enrico Galoppini (redattore di “Eurasia”) e Giovanni Andriolo (ricercatore IsAG). Si riporta di seguito la trascrizione del suo intervento.

 

 

Capire le rivolte arabe è un proposito ambizioso.

Ed è un proposito così ambizioso poiché per capire le rivolte arabe è necessario un requisito fondamentale: l’aver capito i paesi arabi.

Le rivolte arabe infatti esplodono nel 2011, ma in realtà esse nascono nei decenni precedenti, nascono nei decenni precedenti i fenomeni e le dinamiche che danno origine oggi alle rivolte arabe.

 

Da quando le rivolte arabe sono scoppiate, i mezzi di informazione hanno viaggiato su due binari: alcuni, hanno enfatizzato il carattere eroico e quasi romanzesco delle rivolte, dipingendole come movimenti popolari spontanei che attraverso l’autorganizzazione e l’uso di mezzi tecnologici (twitter?) hanno rovesciato o stanno rovesciando i regimi tirannici che da decenni li opprimono.

 

Un altro filone battuto dalla maggior parte dei canali d’informazione ha seguito la linea della diffusione di notizie esagerate di proposito, dai caratteri grotteschi, in modo tale da favorire una clima di opinione pubblica favorevole alle rivolte e ai rovesciamenti di regime. (Un esempio, la notizia della pratica, da parte degli ufficiali di Gheddafi, di distribuire alle truppe dosi di Viagra, in modo tale da risvegliare gli istinti dei combattenti e spingerli ad effettuare stupri punitivi sulla popolazione femminile degli insorti.) Su questo punto, anche giornali arabi molto noti hanno le proprie responsabilità.

 

Alla luce di tutto questo, occorre fare ordine sulla questione, e soprattutto, occorre approcciare l’analisi delle rivolte arabe attraverso due filtri importantissimi.

Per cominciare, occorre avere ben chiara in mente la nozione di paesi arabi, prima di parlare delle rivolte arabe.

I paesi arabi infatti non sono, come spesso i mezzi d’informazione o alcuni analisti sottintendono, un blocco unico, omogeneo. Al contrario, l’insieme dei paesi arabi costituisce un micro (macro) cosmo dai confini e dalle caratteristiche inquadrabili e definibili a fatica.

Convenzionalmente, i paesi arabi sono ventidue, distesi su due continenti e su almeno tre regioni del mondo. Sono accomunati da una lingua quasi comune, da maggioranza di popolazione aderente ad un credo religioso, l’Islam, ma con fortissimi frazionamenti al suo interno, e dalla condivisione, almeno teorica o di facciata, di alcune cause comuni (la più importante, la liberazione della Palestina). Di contro, le differenze sono molte, e sono di tipo storico, culturale, climatico e ambientale, economico, talvolta linguistico.

Le società dei paesi arabi sono diverse da paese a paese, hanno composizioni differenti, sono plasmate su esperienze storiche e culturali in alcuni casi profondamente differenti.

Ne deriva che le rivolte che in diversi di questi paesi stanno infuriando o si sono già consumate nell’anno in corso, possono essere difficilmente accomunate, se non raggruppandole per semplicità di analisi con un aggettivo, “arabe”, che diventa quasi arbitrario come arbitraria può essere considerata la definizione di “paesi arabi”. Per questo motivo, risulta difficile, impossibile, capire adeguatamente le rivolte arabe senza scinderle l’una dall’altra, senza premettere che si tratta di un insieme di rivolte, ognuna nata da caratteristiche intrinseche del paese in cui si svolge, ognuna comprensibile soltanto se inquadrata nel suo proprio contesto politico sociale.

 

Ad un secondo livello di lettura, poi, capire i paesi arabi, e conseguentemente le rivolte arabe, presuppone di avere ben chiaro anche quale sia l’intreccio di legami, influssi, dinamiche che operano all’interno dei singoli paesi ancor prima che le rivolte nascano, e come questi influenzino non soltanto la vita di ogni singolo paese arabo, ma anche il nascere (o il non nascere) di eventi critici come una rivolta. Bisogna inoltre aver chiaro per ogni paese come le dinamiche interne si svolgano in accordo con l’insieme di interessi e ambizioni che forze esterne fanno valere e pesare nel contesto dei singoli stati. Bisogna aver chiaro, in ultima analisi, quale ruolo ogni singolo paese arabo giochi all’interno dello scacchiere geopolitico globale, e di come il nascere o il non nascere di una rivolta, così come le caratteristiche che la plasmano, possa mutare questo ruolo e, di conseguenza, l’intero sistema del micro (o macro) cosmo arabo.

In questo senso, può essere utile individuare dei gruppi di paesi a seconda del posizionamento che ognuno di essi ha assunto a livello internazionale, nei confronti delle maggiori potenze globali, in primis gli Stati Uniti e il sistema NATO da questi diretto. L’allineamento o il disallineamento con un tale sistema finora dominante caratterizza e plasma indubbiamente il ruolo che i singoli paesi detengono a livello globale, la loro fama internazionale, i loro governanti, i loro interscambi commerciali e la loro economia.

La divisione del mondo in paesi buoni e cattivi, i cosiddetti “Stati canaglia”, espressione coniata negli Stati Uniti, e in uso da più di trent’anni, indica in ultima analisi questo: una suddivisione arbitraria dei paesi arabi (e non solo) a seconda del loro grado di allineamento con le potenze euroatlantiche dominanti.

Pertanto, le rivolte arabe assumono motivazioni e significati totalmente diversi a seconda dell’allineamento dei singoli paesi precedente alla rivolta stessa.

 

Così in Tunisia, il regime di Ben Ali, voluto e sostenuto dal sistema euroatlantico (e in cui l’Italia ha giocato a suo tempo un ruolo fondamentale), non è riuscito a resistere al malcontento della popolazione, sempre più spossata da disoccupazione e crescenti costi dei generi alimentari di prima necessità.

 

In Egitto la situazione è più complessa. L’Egitto era una pedina fondamentale nel sistema di sicurezza edificato dagli Stati Uniti nell’area. Il Rais Mubarak, definito spesso il “Faraone”, metafora che rende bene l’idea sia degli smisurati poteri che egli esercitava sia della vetustà del suo governo, era tra i buoni, e dai buoni riceveva miliardi di dollari l’anno per mantenere in piedi l’apparato militare che dal 1952, anno della rivolta dei Generali Liberi, detiene di fatto il potere nel paese. Le proteste in Egitto, da qualunque fonte abbiano tratto origine, hanno suggerito all’entourage militare, aiutato nella decisione dall’Amministrazione Obama, la soluzione di una transizione pacifica: cambiare poco affinché non cambi nulla. In attesa delle elezioni presidenziali di settembre, il potere è ancora saldamente in mano ai generali, gli stessi che avevano favorito, trent’anni fa, la salita al potere del “Faraone” e gli stessi che, probabilmente, agevoleranno l’elezione di un nuovo “buono” con cui perpetrare il proprio potere.

 

In Libia invece la situazione è totalmente diversa. La rivolta infatti non ha carattere popolare (o non pretende di dimostrarsi tale) come in Egitto e Tunisia, ma si innesta nelle dinamiche locali di un frazionamento regionale non ancora superato. Le due facce della Libia, la Tripolitania e la Cirenaica, non sono mai state, malgrado gli sforzi del governo libico, un solo paese. Su questo solco, su questa spaccatura si insinua la radice del caso libico. Inoltre, la presenza pluridecennale sulla scena di un personaggio controverso come Muammar Gheddafi non può che complicare un simile scenario. Gheddafi, da sempre, è tra i cattivi. Gheddafi è un personaggio scomodo, sia per le potenze euroatlantiche sia per i paesi arabi loro alleati. Indipendente da tutti, smanioso di potenza, forte degli introiti garantiti dalle risorse naturali di cui il suo paese è ricco, Gheddafi resta al potere per quarant’anni senza mai piegarsi al volere euroatlantico. Nessuna occasione migliore, per il sistema dei buoni, di un’ondata di rivolte su tutta la regione per fomentare i movimenti indipendentisti della Cirenaica alla ribellione. E quando questi si dovessero trovare in difficoltà di fronte alla strenua resistenza del Colonnello, ecco in soccorso il sistema, con campagne mediatiche, minacce e tanto di risoluzioni ONU a giustificare internazionalmente un intervento diretto. Perché, a ben vedere, l’intervento diretto si è avuto contro una persona, Gheddafi, che non poteva essere convinto dal sistema a mollare, come Mubarak e Ben Ali, e la cui successione, soprattutto, non poteva essere stabilita dal sistema stesso, come in Egitto e in Tunisia.

In Libia, quindi, stiamo assistendo al tentativo, da parte del sistema dei buoni, di risolvere un problema, Gheddafi, che da quarant’anni incombe e di ottenere contemporaneamente il controllo su altre riserve di gas e petrolio, quelle libiche appunto.

Non bisogna certo dimenticare che i sistemi di Gheddafi sono stati negli ultimi decenni tutt’altro che democratici e non sanguinari, ma, a quanto sembra, nemmeno Ben Ali o Mubarak risultano esenti da simili critiche.

 

E per restare in tema, passando al versante asiatico del mondo arabo, si arriva alla Penisola Araba. L’Arabia Saudita costituisce il secondo pilastro su cui si basa (o si basava) il sistema di sicurezza euroatlantico nel Vicino Oriente. Dei buoni, insomma, i cui metodi di governo erano secondi, in quando a chiusura e repressione, soltanto all’Afghanistan dei Talebani. Con la caduta di questi, i Saud ottengono la prima posizione in questa speciale classifica. Eppure, il sistema euroatlantico non sembra particolarmente scandalizzato da questo notevole primato. Anche perché l’Arabia Saudita, oltre ad essere un buono, è pure un buono ricco, di risorse, di investimenti nei posti giusti, e di liquidità. Anche in Arabia Saudita, a marzo, ci sono state delle proteste. Questa volta, però, non di tipo popolare né regionalistico, bensì di tipo settario. La comunità sciita, minoranza all’interno del paese, ha effettuato alcune dimostrazioni in diverse città. La copertura mediatica internazionale degli eventi non è stata così capillare come avvenuto altrove, e le rivolte sembrano per il momento placate dagli apparati di sicurezza dei Saud. Non contenti di questi successi, i Saud hanno poi deciso di intervenire nel vicino Bahrein, un altro paese governato da buoni, dove la rivolta degli sciiti, qui maggioranza nel paese, contro il governo sunnita sembrava prendere piede. L’intervento dell’esercito saudita in Bahrein ha evitato il collasso della famiglia regnante, ma non ha certamente sopito gli animi. Eppure, la diffusione di filmati, che ritraevano le forze governative dal Bahrein abbattere a colpi d’arma da fuoco manifestanti disarmati, non ha generato lo stesso moto di sdegno, nel mondo euro atlantico, né lo stesso intervento delle Nazioni Unite.

 

L’Arabia Saudita, poi, si è impegnata nella composizione, tramite il GCC, della crisi yemenita. Qui, elementi di malcontento interno, così come le spinte al rovesciamento del governo di Saleh da parte delle diverse tribù che compongono questo frastagliato paese, hanno portato al dilagare di proteste e rivolte. Anche in questo caso, siamo sicuri che l’Arabia Saudita, divenuta una specie di NATO della Penisola Araba, saprà conservare lo status quo, anche qualora ci dovesse essere una transizione dei poteri.

 

Infine la Siria della famiglia Assad, un altro dei cattivi, uno “Stato canaglia” tra i più preoccupanti per il sistema euroatlantico. Con una duplice aggravante: da un lato la sua vicinanza politica con l’Iran, la “canaglia” per eccellenza, dall’altro lo stato di conflitto, nonché la vicinanza geografica, con lo Stato di Israele, e la presenza di ferite ancora aperte dai tempi della Guerra dei Sei Giorni (Alture del Golan). La Siria è un altro paese scomodo, al pari della Libia, ma, per sua fortuna, privo di preziose risorse naturali. L’origine delle rivolte in Siria ha aspetti non del tutto chiari, e le notizie che arrivano da Damasco sono tutt’altro che attendibili. Certamente, il regime degli Assad conta all’interno del paese diversi nemici, ma anche all’esterno le forze ostili sono capaci e determinate. Un quadro della situazione può essere solamente desunto dall’insieme di notizie e testimonianze che fuoriescono quotidianamente, e la verità può essere attualmente soltanto abbozzata attraverso la confutazione, quando le contraddizioni siano palesi, delle notizie diffuse dai mezzi d’informazione.

 

Si sono verificate rivolte e manifestazioni di diversa entità, nel 2011, anche in Marocco, Algeria, Oman, Kuwait, Giordania, Libano e Iraq, senza gravi conseguenze, ognuna con la sua storia e le sue motivazioni.

 

Nel frattempo, il Sudan sta affrontando una gravissima e sanguinosa crisi, che ha portato il paese alla definitiva divisione; in Somalia continua lo sforzo di stabilizzazione di un governo fragile contro i tentativi di colpo di stato da parte di gruppi di ispirazione religiosa fondamentalista; la Costa d’Avorio ha visto in questi mesi l’atroce recrudescenza di un conflitto civile che dura da dieci anni.

Eppure di questo non si è parlato più di tanto: i paesi africani non hanno ancora un ruolo importante sullo scacchiere globale.

 

E’ molto più facile invece parlare di rivolte arabe, esaltarne i caratteri eroici e libertari contro un sistema repressivo, molto spesso favorito dal sistema euroatlantico, che in Europa ci vantiamo di aver superato. Senza considerare, purtroppo, che i paesi arabi, come le rivolte arabe, non vanno giudicate con parametri europei. Piuttosto, le rivolte arabe vanno analizzate alla luce dei diversi contesti in cui i paesi arabi interessati si muovono. Le rivolte arabe, di qualunque natura esse siano, non cambieranno il mondo arabo, non lo renderanno più democratico o, peggio, più simile all’Europa: non potrebbero e non sarebbe giusto. Le rivolte arabe tuttavia, daranno uno scossone al sistema che fino al 2010 vigeva nell’area, e solo quando il fumo dei mortai si sarà abbassato, il mondo potrà vedere quali paesi hanno cambiato il proprio ruolo, o il proprio allineamento, e quali invece saranno rimasti nella posizione precedente.

 

Capire le rivolte arabe, si diceva, è un proposito ambizioso.

I nostri due autori, con questo libro, ci danno un grande aiuto in questo senso.


Viewing all articles
Browse latest Browse all 140

Trending Articles