“Gli Stati Uniti sembrano destinati dalla Provvidenza a piegare con la fame e la miseria l’America intera in nome della libertà” è quanto profetizzò Simon Bolivar nel 1815, durante il suo esilio in Giamaica, nella “lettera Guatemalteca” sulla Royal Gazzetta di Kingston.
Dopo 194 anni da tale affermazione, si può ben dire che l’egemonia economico-politica nell’area da parte degli Stati Uniti è stata indiscussa. Con metodi non sempre leciti, il colosso nord americano è riuscito a tessere una rete di relazioni che gli hanno permesso di controllare l’intero continente.
Ma oggi la centralità geopolitica statunitense è fortemente in discussione:
- Il Medio Oriente è in continuo fermento e ciò non giova all’economia a stelle e strisce che vede vacillare le certezze sulle proprie riserve energetiche nella Regione;
- Le “Missioni di Pace” si sono dimostrate guerre di logoramento difficili da portare a termine con un conseguente risultato economico che non giustifica l’ingente investimento fatto;
- Non va sottovalutato il peso che hanno sul bilancio le situazioni di stallo in aree strategicamente fondamentali come nel caso della penisola coreana. Qui è in atto un’eterna partita a scacchi con la Cina che non permette agli USA di ridurre la propria presenza militare ai margini di Seul;
- La crisi economica che ha investito tutto l’Occidente (la più lunga della storia) ha visto – negli ultimi giorni – per la prima volta il colosso statunitense condotto ad un declassamento del proprio debito pubblico. Ciò ha confermato la vulnerabilità di quella che sino ad oggi è stata la prima e indiscussa potenza mondiale.
Proprio da quest’ultimo punto si può partire per un’analisi dei rapporti tra nord e sud nel Nuovo Continente.
La criticità del debito pubblico statunitense palesa, oltre all’insostenibilità del sistema creditizio americano, la paradossale asimmetria nelle variazioni quantitative delle voci di bilancio.
Se da una parte le spese militari sono andate progressivamente aumentando come i costi per il risanamento bancario, dall’altro i flussi di capitale dall’esterno verso l’interno si sono progressivamente ridotti. Per quest’ultima voce di bilancio si osserva che gli accordi economici nel bacino del mediterraneo stanno perdendo il loro status di “certezza” così come quelli riguardanti il Sud America.
L’America Latina, negli ultimi anni ha fatto osservare in molti Stati, un cambiamento di rotta per quanto concerne sia la politica interna che quella esterna. Stati come Venezuela o Brasile hanno dimostrato fortemente la loro volontà di svezzarsi dal capitale nord americano.
Il venezuelano Chavez continua a guidare la propria nazione verso uno sviluppo economico sostenibile il più possibile indipendente da influenze esterne. Il Presidente ha promosso una progressiva nazionalizzazione dei settori chiave dell’economia venezuelana (in primis l’estrazione di idrocarburi) a discapito delle multinazionali statunitensi. Ciò ha comportato un progressiva emarginazione, osteggiata fortemente dagli Usa, del Venezuela nei dialoghi internazionali, accrescendo, di conseguenza, la tensione tra Caracas e Washington.
Il Brasile punta a consolidare il suo status di “economia emergente” ponendosi alla pari delle Nazioni che storicamente detengono l’egemonia nei dialoghi internazionali. A riprova di ciò vi sono gli svariati interventi internazionali come ad esempio la volontà di rafforzare la propria posizione all’interno delle Nazioni Unite e la presa di posizione nei confronti dell’Italia nel “Caso Battisti”. Quest’ultima, se pur discutibile, dimostra una fermezza del governo brasiliano nel mantenere salde le proprie decisioni che prescinde dalla possibilità di inficiare gli accordi economici sussistenti tra i due Stati.
Lo stesso Messico, da sempre preda del neocolonialismo statunitense, manifesta un cauto ottimismo sulle sue possibilità di progredire economicamente. Partendo da un sottosviluppo cronico, dovuto per lo più ad un forte sfruttamento delle proprie risorse da parte dei vicini anglofoni, e perennemente alle prese con la lotta al narcotraffico e alla tratta clandestina di emigranti verso gli Stati Uniti, negli ultimi anni il Messico ha registrato un aumento del PIL costante tra il +4 e il +5% e un’interessante aumento del tasso di alfabetizzazione della popolazione. Il governo messicano sta indirizzando il proprio sviluppo economico verso le energie rinnovabili approfittando delle favorevoli condizioni geo-climatiche del territorio nazionale. Ma il tutto va letto con cauto ottimismo dato che, ogni prospettiva di progresso, dipende dalla capacità di Città del Messico di rendersi indipendente dalla politica e dagli interessi economici statunitensi (prospettiva lontana). D’altra parte risulta cruciale la conciliazione tra il potere centrale e le popolazioni delle diverse regioni che compongono questa nazione.
In Perù il neo eletto Humala rappresenta ancora un’incognita politica, occorrerà difatti capire se verrà sostenuta la crescita economica verificatasi negli ultimi anni, e ancor più fondamentale, nel delineare i futuri scenari per il Paese, sarà la politica che Humala adotterà realmente: rispetterà le promesse di non intromissione da parte dello Stato nell’economia fatte in campagna elettorale, oppure si spingerà verso il modello del socialismo venezuelano?
Nel complesso, tuttavia, gli Stati latinoamericani hanno subito un, se pur modico, rallentamento dovuto alla crisi dei mercati finanziari, fatta eccezione, in apparenza, per l’Argentina. Qui si registra un aumento del PIL intorno al 9%, ma è indicativa la scelta del governo di vietare l’analisi e la divulgazione, da parte di società private, di stime riguardanti l’andamento dei prezzi al consumo. Ciò porta a concludere che l’intento di Buenos Aires è di diffondere ottimismo tra la popolazione e soprattutto, ricollocarsi come paese attrattivo per gli investimenti esteri.
In fine merita attenzione l’area caraibica dove il crescente flusso di investimenti esterni provenienti dalle economie emergenti del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), mette a dura prova la consolidata egemonia statunitense in un’area da sempre croce (vedi la mancata stella Cubana nel novero degli Stati Confederati d’America) e delizia della geopolitica statunitense.
Quanto sin qui esposto ci porta a comprendere il comportamento di Obama in occasione dell’inizio della crisi libica. In circostanze più rosee dal punto di vista economico-finanziario, il sorgere di una crisi in una zona strategicamente rilevante come quella del Mediterraneo, avrebbe visto un qualsiasi presidente americano in prima fila nel promuovere un piano di democratizzazione. Ma il periodo non è dei più floridi e Obama ha preferito proseguire il suo tour politico sudamericano. Si può benissimo dedurre che ci troviamo dinanzi ad un “restyling” della Dottrina Monroe per cui gli USA puntano ad arginare l’incombenza degli investimenti provenienti dai BRICS, rinnovando vecchi accordi o proponendone nuovi, magari forti di interrelazioni bilaterali secolari. Purtroppo, e per questo lo definiamo restyling, non è possibile intimare ai Paesi del BRICS la non ingerenza su tutto ciò che riguarda il Nuovo Continente. Quindi il colosso Nord-Americano, per via del libero mercato, è costretto a competere come tutti gli altri e a “vendersi meglio” per ottenere l’esclusiva economica sull’area.
La competizione economica diventa sempre più agguerrita, le certezze diminuiscono, le Economie Emergenti incalzano e prima di essere travolta dallo tsunami dell’evoluzione economica in atto, Washington ha pensato bene di aggrapparsi allo scoglio geopoliticamente più vicino: l’America Indiolatina.
William Bavone è laureato in Economia Aziendale (Università degli Studi del Sannio, Benevento)