Embargo: “Provvedimento con cui uno stato o un gruppo di stati vieta l’esportazione di armi, munizioni e di qualsiasi prodotto che possa servire alle nazioni in guerra per prolungare il conflitto, o con cui, anche fuori da eventi bellici, delibera la sospensione di forniture di determinate merci per esercitare su una nazione pressioni o ritorsioni di natura politica”.
Alla luce di questa definizione appare chiaro come il semplice navigare verso un porto, se questo porto si trova a Gaza, può essere sinonimo, o meglio è sinonimo di forzare; come logica conseguenza ne deriva che qualcuno, ‘distratto da uno schermo che è piatto’, ha gioco facile nell’affermare che pacifisti e forzature sono termini che non possono essere accostati. Ma procediamo con ordine.
La Freedom Flotilla 2 – Stay Human
In questa sede verrà concesso poco spazio alla cronaca quotidiana dell’epopea mai veramente cominciata di questo convoglio di navi – di cui comunque si forniranno le coordinate essenziali per seguire l’analisi – ma sarà invece privilegiato tutto il contorno politico internazionale e le sue implicazioni, ai quali poca attenzione è stata concessa dai media nazionali ma che invece merita qualche riflessione approfondita.
In questo caso, a differenza di quanto accaduto nel maggio 2010, l’esperienza della Freedom Flotilla 2 (FF2) non si è mai veramente concretizzata, almeno a livello puramente fattuale, dal momento che nessuna delle dieci navi di cui era composta la flotta è riuscita ad allontanarsi dalle coste greche; l’unica parziale eccezione è rappresentata dall’imbarcazione francese, la Dignité – al-Karama che, grazie al suo profilo simile ad uno yacht turistico, è riuscita a salpare. Parziale perché poi è stata intercettata dalla marina israeliana in acque internazionali ed è stata accompagnata nel porto di Ashdod dove gli attivisti che erano a bordo sono stati interrogati e posti in stato di fermo con l’accusa di aver violato le leggi israeliane sull’immigrazione.
Delle dieci navi di cui si componeva la Freedom Flotilla 2, due trasportavano aiuti umanitari e materiali edili – interdetti alla popolazione della Striscia da quando è in vigore l’embargo ma necessari quasi quanto il pane dal momento che gli edifici nelle migliori condizioni (ospedali e scuole compresi) sono comunque eufemisticamente mal ridotti – mentre tutte le altre trasportavano attivisti di ogni età, mestiere (politici, scrittori ecc.), paese e religione (oltre a cristiani e musulmani, a bordo delle navi erano presenti anche cittadini ebrei americani, canadesi ed europei) e membri della stampa di diverse emittenti internazionali (CNN, al-Jazeera ecc.).
Un variegato mosaico di umanità dunque, animato da un duplice scopo: uno di natura tutta politica, rompere l’assedio denunciando platealmente le condizioni in cui versa la popolazione di Gaza dal 2007, ed uno più semplicemente filantropico, cioè alleggerire il peso delle difficoltà di una vita in una ‘prigione a cielo aperto’ (come spesso Vittorio Arrigoni definiva la Striscia).
Come e perché una missione umanitaria può diventare pericolosa
In Israele, una missione umanitaria come lo è la Freedom Flotilla può far scattare l’allarme della minaccia e giustificare un addestramento specifico per alcune squadre militari.
Forse è la tradizione, troppo lontana dalla nostra per poterla comprendere, ad imporre un’accoglienza di questo tipo: la marina israeliana infatti si è prodigata nel preparare molte sorprese per le navi della Flotilla in arrivo, almeno secondo quanto dichiarato da un ufficiale della marina stessa. È l’unità Shayetet 13 la protagonista indiscussa della ‘festa a sorpresa’ – la stessa che accolse nel maggio del 2010 la Mavi Marmara con i ben noti risultati – poiché si è impegnata in un addestramento ad hoc che include ‘la simulazione di incursioni su un’imbarcazione che ricostruisca gli eventi accaduti sulla Mavi Marmara’ per evitare che l’incontro produca un nuovo, tragico bollettino di guerra, sembra di capire dalle colonne del People Daily. Dunque l’ ordine è: ‘pronti a tutto, ma lasciamo la violenza come ultima spiaggia’.
Torniamo per un attimo tra gli attivisti della Freedom Flotilla. Prima di (non) partire e proprio a causa dello stato d’allerta scattato nello stato ebraico, gli internazionali del convoglio navale avevano firmato una dichiarazione di non violenza, per ribadire ulteriormente le loro reali intenzioni a dispetto degli sforzi che la ‘macchina del fango’ israeliana stava compiendo per dipingere alcuni di loro come terroristi – all’interno del gruppo sarebbero stati comunque presenti dei membri dell’IHH, organizzazione umanitaria turca che aveva guidato la precedente ‘spedizione’ e che secondo l’intelligence israeliana sarebbe vicina ad Hamas – e più in generale l’intera compagnia come un insieme di guerrafondai pronti ad attaccare con sostanze chimiche, intenzionati a resistere violentemente ai pacati suggerimenti dell’IDF (Israel Defence Force) di non violare il blocco navale. Nello specifico, l’accusa di trasportare agenti chimici a bordo era stata lanciata da fonti della Difesa israeliane e prontamente raccolta dal quotidiano Haaretz a firma della giornalista Amira Hass, che pure avrebbe calpestato il pontile di una delle navi (!).
Agli occhi dell’ammiraglio Maron tutto questo è possibile perché gli attivisti non sarebbero spinti da motivi umanitari ma da ‘odio verso Israele’; viene da rispondergli con queste parole: ‘[…] Dovrebbe vedere i volti delle ragazze e dei ragazzi che stanno per imbarcarsi. Ci troverebbe sorrisi, sguardi di speranza, a volte l’ingenuità di chi ancora crede che valga la pena spendersi per gli altri. Ci troverebbe tutto meno che l’odio. Anzi, forse insieme alla solidarietà attiva verso la popolazione di Gaza stretta da anni in un assedio feroce c’è anche quella per Israele prigioniera di una logica che pare non riesca a concepire altra legge se non quella del più forte rischiando così di soffocare tutto ciò che di migliore la sua società ha espresso ed esprime.’ (tratto dalla lettera che il giornalista e vignettista del Manifesto, Vauro Senesi, ha immaginato di scrivere all’ammiraglio Maron in qualità di passeggero della nave Stefano Chiarini).
Dunque, queste poche centinaia di sedicenti ‘figli dei fiori’ sono state capaci di ‘mettere sul chi vive’ uno degli eserciti meglio equipaggiati e meglio addestrati al mondo; del resto, i nomi dati alle barche della Flotilla incuterebbero timore a chiunque: Dignité – al-Karama, Audacity of Hope, Tahrir (in onore della piazza cairota che ha restituito all’Egitto il ruolo di ‘Umm ad-Dunya, la madre del mondo – arabo – in questa nuova e diversa Nahda araba, cioè primavera), Stefano Chiarini ecc.
Ma questa (infondata) campagna velenosa nei confronti di ‘navi civili cariche solo di giovani e di aiuti’ a chi è servita? E perché?
Per trovare una risposta non è necessario scavare troppo a fondo. Il beneficiario primo e principale è stato ovviamente Israele che, facendo travestire gli attivisti da pericolosi facinorosi e guerrafondai giustificava anticipatamente il ricorso alla violenza con l’atavica scusa del ‘dovevamo difenderci, siamo stati costretti’, motivazione sempre valida in quest’area del mondo ormai dal 1948 a questa parte, e forse anche da prima. A questo proposito si possono citare infiniti episodi, l’ultimo dei quali è rappresentato proprio dal diretto antecedente della Freedom Flotilla 2 – Stay Human, ossia dalla Mavi Marmara (si badi, ultimo episodio noto alla cronaca mondiale), quando i nove civili turchi sono caduti per la legittima difesa dei militari israeliani; è talmente vera, questa motivazione, che ad oggi il governo israeliano si rifiuta di porgere le proprie scuse in forma ufficiale ad Istanbul – perché tale è la richiesta del governo turco per normalizzare i rapporti tra i due paesi – poiché un tale gesto implicherebbe un’ammissione di responsabilità che invece a Tel Aviv nessuno sente di avere.
Flotilla diversa, stesso risultato
Lungi dal voler accostare le dinamiche dei due episodi, profondamente diverse (fortunatamente), il risultato è innegabilmente lo stesso: in nessuno dei due casi il convoglio è riuscito a raggiungere le coste palestinesi, dunque entrambi i tentativi sono tecnicamente falliti. Tecnicamente, ma non moralmente, ed è la ragione per cui io e personaggi ben più autorevoli di me riteniamo anche questa circostanza un clamoroso autogol da parte dell’ ‘unica democrazia del Medio Oriente’; a dopo il perché.
Ciò che distingue sostanzialmente quanto accaduto l’anno scorso da quanto accaduto soltanto un mese fa è la mancata necessità di un intervento armato nel secondo caso sebbene, come abbiamo visto, l’ipotesi non fosse stata esclusa dagli alti quadri militari israeliani. In questo caso infatti lo stato ebraico ha potuto avvalersi della collaborazione diplomatica di molti altri Stati, una collaborazione più o meno volontaria ed in forme diverse a seconda dei casi.
Partiamo con gli Stati Uniti, sulla cui spontaneità nel collaborare non si possono avere dubbi; l’appoggio fornito in questo caso si è concretizzato in un tentativo di dissuadere i propri cittadini dal prendere parte alla missione perché, come dichiarato dal Segretario di Stato Clinton, ‘le navi che salperanno a breve verso Gaza rappresentano un affronto al blocco imposto da Israele e sono quindi da considerarsi un inutile tentativo atto solo a produrre reazioni’. Anche Victoria Nuland, portavoce del Dipartimento di Stato Americano, abbraccia le posizioni espresse dal Segretario di stato, apostrofando gli attivisti americani con queste parole ‘La determinazione dimostrata dai partecipanti alla Flotilla diretta Gaza è per noi motivo di preoccupazione. La loro è una scelta irresponsabile oltreché provocatoria’. Pare doveroso intuire che oltreoceano il tentativo di portare beni di prima necessità ad un popolo che ne è sprovvisto rappresenta una provocazione; termine interessante perché, oltre che a far coppia con l’atteggiamento espresso dall’intelligence israeliana, semanticamente sottintende una reazione cui il ‘provocato’ è autorizzato a dare seguito, se lo reputa necessario. Ogni altra esplicitazione è superflua.
Sarà il continente, ma di provocazione ha parlato anche il Primo Ministro canadese, filo – israeliano, esortando la Canadian Boat to Gaza a non unirsi alla Flotilla perché ‘qualsiasi tentativo non autorizzato di recapitare aiuti risulta provocatorio ed in definitiva dannoso alla popolazione del posto’.
Preoccupazione è giunta anche dal Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki Moon, il quale ha esternato i suoi timori a che dinamiche analoghe allo scorso anno si potessero ripetere se la flotta avesse preso il largo.
Il governo britannico non ha fatto eccezione, figurarsi se poteva farlo l’Italia.
Ad Istanbul invece hanno compiuto un passettino oltre, riuscendo nell’intento di impedire la partecipazione della propria delegazione; le motivazioni sono diverse e vanno dalla preoccupazione per l’evolversi della situazione siriana, al timore di una nuova ‘Mavi Marmara’ per finire con le pressioni di Tel Aviv.
Sebbene inefficace – parlando con il senno di poi – è da rilevare che l’atteggiamento degli attivisti di fronte alla pioggia di consigli è stato sempre lo stesso, e cioè di una cortese non curanza.
Però, quello che si è distinto sopra tutti gli altri nell’assecondare le pressioni israeliane è stato sicuramente il governo greco, che a onor del vero non aveva una reale possibilità di scelta. La situazione economica in cui si dibatte attualmente la Grecia ha rappresentato la leva su cui Israele è riuscito a fare pressione per ottenere quello che chiedeva. Infatti, non soltanto dalla posizione in cui è, la Grecia non ha certo facoltà d’imporsi – né in generale né tanto meno su uno dei paesi più industrializzati al mondo – ma a questo va aggiunta anche la posta in gioco, vale a dire i rapporti commerciali tra i due paesi che Israele non ha esitato a mettere sul tavolo per convincere Atene e che, per i motivi di cui sopra, la capitale ellenica non può permettersi di ipotecare.
Da parte sua quindi, la Grecia ha voluto privilegiare i motivi d’interesse nazionale pur ribadendo la necessità di rimuovere il blocco da Gaza per il quale, secondo il portavoce del Ministro degli Esteri, l’unica via praticabile, per quanto impervia, rimane comunque quella dei negoziati.
Siamo dunque arrivati al momento in cui la Freedom Flotilla – Stay Human è stata definitivamente bloccata in seguito alle dichiarazioni del governo greco che hanno ufficializzato la non autorizzazione a salpare per nessuna delle imbarcazioni componenti la flotta.
Tuttavia, il piano israeliano non prevedeva azioni soltanto sul piano governativo; è interessante il caso della richiesta di non permettere l’imbarco per Tel Aviv delle persone i cui nomi erano contenuti in una no fly list fatta accuratamente recapitare a diverse compagnie aeree.
Queste misure si sono rese necessarie a causa dell’operazione ‘Benvenuto in Palestina’ che prevedeva l’arrivo all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv di attivisti da tutto il mondo nella giornata dell’ 8 luglio, una Flytilla in sostegno di quella marittima bloccata dal governo greco.
Flotilla 2 – Israele 0
Nonostante le imbarcazioni non siano riuscite a giungere a destinazione, né questa volta né la precedente, è la Flotilla ad aver vinto la partita.
In entrambi i casi infatti, man mano che la data fissata per la partenza si avvicinava Israele si faceva più permissivo, consentendo l’ingresso nella Striscia di aiuti umanitari che poco tempo prima erano invece proibiti, tra cui rientrano anche i materiali da costruzione, a dimostrazione del fatto che le motivazioni fornite per legittimare il divieto di passaggio di questi ultimi sono del tutto pretestuose.
Ma non è tanto questo, o comunque non principalmente, l’elemento che può trasformare un fallimento in un successo, quanto piuttosto quello che si ricava dall’intera vicenda.
Scegliendo di ostacolare, di combattere la Flotilla anziché permetterle l’ attracco al porto di Gaza, Israele ha dimostrato di non stare difendendo se stesso ma l’assedio, per ben due volte. Innanzitutto, perché se l’avesse lasciata andare non avrebbe destato l’attenzione dei media internazionali nella stessa misura in cui poi questo è avvenuto, essendo perfettamente a conoscenza del fatto che a bordo non vi era un solo grammo di esplosivo o sostanze chimiche di sorta, né alcun terrorista guerrafondaio anti – israeliano, ma soltanto persone che odiano le ingiustizie e gli abusi compiuti da Israele.
C’è poi l’effetto controproducente che ha ottenuto impedendo che la missione avesse luogo; gli attivisti infatti, tutt’altro che scoraggiati, si sono da subito dichiarati pronti a mettere in piedi una terza Freedom Flotilla ed ogni altra manifestazione ad essa assimilabile perché la loro vicinanza emotiva, la loro solidarietà al popolo di Gaza giunga diretta e forte, davanti agli occhi del mondo intero.
Sebbene il sostantivo non esaurisca l’essenza dell’accaduto, probabilmente l’azione degli internazionali voleva anche essere una provocazione, unica strada per far tornare a parlare di Gaza, cosa che non avviene se non sono implicati missili Qassam o Flotilla. Sbarrando il mare al convoglio, Israele ha permesso che questo messaggio di solidarietà e insieme di denuncia fosse amplificato infinite volte e giungesse ai quattro angoli del mondo più forte di quanto avrebbe probabilmente fatto.
Ancora un altro elemento degno di riflessione è la reazione di Israele; immediatamente e da chiunque la Flotilla è stata presentata come una minaccia alla sicurezza per lo stato ebraico ed i suoi passeggeri come nemici, per mezzo di una retorica costruita con tutti gli ingredienti necessari: pericolo, sostanze chimiche, musulmani, turchi, arabi e, perché no, attentatori suicidi. L’unica risposta logica ad una minaccia di tale portata è ovviamente la violenza e soltanto la violenza, riproponendo lo schema di gioco vincente per lo stato ebraico: prima la demonizzazione, poi la legittimazione a reagire con la forza. Con tale intensità è arrivata ad essere percepita la minaccia nell’opinione pubblica che un commentatore, Dan Margalit, ha gridato dalle colonne del suo giornale ‘benedette siano le mani’ con riferimento a quelle mani che hanno sabotato a più riprese diverse navi della Flotilla mentre erano attraccate nei porti greci; il plauso ricevuto per queste semplici parole ha impedito ai più di chiedersi: ‘con che diritto?’.
La ratio nel modus operandi israeliano è difficile da trovare, intendo una logica che sia accettabile per una persona dotata di un minimo di pietas umana.
La stampa quotidiana mediorientale ci fa dedurre che la situazione non migliorerà mai: continuano ad essere approvati progetti di costruzione di insediamenti ebraici sui territori palestinesi, le umiliazioni ai check points ( e ce ne sono veramente tanti), aumenta l’esasperazione di un popolo che ha la sola colpa di trovarsi ‘nel posto sbagliato’.
Tutto questo non descrive l’immagine di una democrazia, e a Tel Aviv lo sanno talmente bene che temono che azioni come quella della Freedom Flotilla possano accendere i riflettori e mostrare al mondo quale sia la realtà vera, quella non filtrata.
Ma siamo ottimisti: finché qualcuno continuerà a dire ‘Come posso non andare’ c’è speranza che almeno una flebile fiamma illumini la Striscia.
* Paola Saliola è dottoressa in Lingue e civiltà orientali presso l’Università La Sapienza di Roma